I Mondi (1552), una delle opere più rappresentative della stagione veneziana di Anton Francesco Doni, per troppo tempo sono stati considerati il frutto eccentrico dell’officina di un poligrafo, oppure un episodio della tradizione utopica cinquecentesca. Qui l’opera è riletta in una chiave che definisce ed esalta, insieme alla specificità dell’impianto, anche la complessità della scrittura. La prospettiva in cui si muove la ricerca ha al centro la relazione tra la componente verbale e il corredo iconografico dal quale il testo trae origine e con il quale poi stabilisce un dialogo costante. Viene ripercorsa la storia del corpus di xilografie di cui l’opera è corredata – che nel 1540 e di nuovo nel 1550 avevano illustrato le Sorti di Francesco Marcolini –, poi viene esaminato nel dettaglio il modo tutto particolare in cui Doni le riusa. Oltre a ricostruire e a motivare la sofisticata rete di rapporti che legano il testo alle illustrazioni della princeps, l’indagine giunge a far emergere la cifra della scrittura di Doni: caratterizzata da un alto tasso di figuralità perché in competizione costante con il linguaggio iconico, di cui vuole emulare l’efficacia espressiva. La parte conclusiva del libro si interroga su un momento significativo della fortuna editoriale del testo, la sua trasposizione francese. Nella traduzione di Gabriel Chappuys, condotta in piena età controriformistica (1578), il dialogo subisce trasformazioni radicali sia nello stile, sia nel rapporto con la componente figurativa. Ne emergono i riflessi dei mutamenti letterari, ideologici e politici che segnarono i destini culturali dell’Italia e dell’Europa nella seconda metà del Cinquecento. Anche in questo caso si mostra come la storia di un libro non può non evocare, e insieme documentare, la storia delle idee e delle vicende intellettuali che di volta in volta si sono sviluppate intorno ad esso.
«Se le parole si potessero scorgere». I Mondi di Doni tra Italia e Francia
RIZZARELLI, GIOVANNA
2007
Abstract
I Mondi (1552), una delle opere più rappresentative della stagione veneziana di Anton Francesco Doni, per troppo tempo sono stati considerati il frutto eccentrico dell’officina di un poligrafo, oppure un episodio della tradizione utopica cinquecentesca. Qui l’opera è riletta in una chiave che definisce ed esalta, insieme alla specificità dell’impianto, anche la complessità della scrittura. La prospettiva in cui si muove la ricerca ha al centro la relazione tra la componente verbale e il corredo iconografico dal quale il testo trae origine e con il quale poi stabilisce un dialogo costante. Viene ripercorsa la storia del corpus di xilografie di cui l’opera è corredata – che nel 1540 e di nuovo nel 1550 avevano illustrato le Sorti di Francesco Marcolini –, poi viene esaminato nel dettaglio il modo tutto particolare in cui Doni le riusa. Oltre a ricostruire e a motivare la sofisticata rete di rapporti che legano il testo alle illustrazioni della princeps, l’indagine giunge a far emergere la cifra della scrittura di Doni: caratterizzata da un alto tasso di figuralità perché in competizione costante con il linguaggio iconico, di cui vuole emulare l’efficacia espressiva. La parte conclusiva del libro si interroga su un momento significativo della fortuna editoriale del testo, la sua trasposizione francese. Nella traduzione di Gabriel Chappuys, condotta in piena età controriformistica (1578), il dialogo subisce trasformazioni radicali sia nello stile, sia nel rapporto con la componente figurativa. Ne emergono i riflessi dei mutamenti letterari, ideologici e politici che segnarono i destini culturali dell’Italia e dell’Europa nella seconda metà del Cinquecento. Anche in questo caso si mostra come la storia di un libro non può non evocare, e insieme documentare, la storia delle idee e delle vicende intellettuali che di volta in volta si sono sviluppate intorno ad esso.File | Dimensione | Formato | |
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