Il più importante fra i tre manoscritti antichi del De vulgari eloquentia, oggi a Berlino, oltre ad offrire un testo più corretto dell’opera dantesca consente di approfondire in maniera decisiva la conoscenza intorno alla sua prima circolazione trecentesca e al contesto culturale entro cui essa si compì. Tra Firenze e Napoli, con tutta probabilità, esso fu conosciuto già intorno al 1340-50 non quale “trattatello linguistico” (secondo la riduzione epistemologica a cui la stringeranno un secolo e mezzo più tardi Trissino e il Bembo), ma come riflessione sul rapporto che lega il potere della lingua alla lingua del potere, ed anche la retorica all’arte di “reggere” la cosa pubblica. Appunto Rectorica Dantis viene definita, in una postilla di una mano coeva a quella del copista principale, l’intera sequenza Monarchia-De vulgari eloquentia che occupa la seconda parte del codice berloinese (fol. 89r-94v+95r-98v), in un sistema intenzionalmente costruito da un editor che parrebbe molto vicino a Dionigi di Borgo San Sepolcro, intellettuale legato a Roberto d’Angiò, visto che la parte più consistente del libro (fol. 1-88v), pensato e organizzato in maniera organica con un insieme coerente, trasmette il commento di Dionigi a Valerio Massimo, completato a Napoli entro il 1342, anno della sua morte. Dionigi propiziò l’incoronazione poetica di Petrarca sul Campidoglio, e prima ancora il suo importantissimo viaggio a Napoli; fu anche vicino a Boccaccio, e svolse un ruolo decisivo nella formazione del primo “umanesimo” italiano, nella corte angioina, già molto attenta, fin dal Memoriale del 1313, alla questione del volgare. In questo quadro l’accostamento delle due opere dantesche al commento di Dionigi assume un valore ideologico altissimo, e mostra come la cultura angioina abbia colto il legame intrinseco che nella riflessione politica di Dante assumono l’universalità giurisdizionale del potere imperiale e la forza che avrebbe l’Impero riunificato nel coordinare una lingua illustre, cardinale, aulica e curiale. La posizione espressa da Mon., I 5, 3-10 («unum oportet esse regulans sive regens, et hoc “Monarcha” sive “Imperator” dici debet. Et sic patet quod ad bene esse mundi necesse est Monarchiam esse sive Imperium») si comprende pienamente confrontandola con i capitoli 17 e 18 del I libro del DVE («sicut membra illius uno Principe uniuntur, sic membra huius gratioso lumine rationis unita sunt. Quare falsum esset dicere curia carere Ytalos, quanquam Principe careamus; quoniam curiam habemus, licet corporaliter sit dispersa»). Le due opere furono comprese, nella Napoli di Roberto d’Angiò e di Dionigi da Borgo San Sepolcro commentatore di Valerio Massimo e di altri classici antichi, in quel senso pienamente umanistico con cui Dante aveva connesso «Seneca et Numa Pompilius», il potere del pensiero e della scrittura e la stabile fondazione della communitas umana, pilastro della convivenza civile a cui il linguaggio per sua natura tende, e che il sovrano “illuminato” fonda e garantisce. Al Dante del De vulgari eloquentia come a quello della Monarchia interessa la saldatura del potere della lingua in quanto radicamento comunitario della civiltà umana con la lingua che il potere politico elabora per costituire «domum et civitatem», famiglia e società. Per lui la nuova classe dirigente di una nazione italiana dovrà muovere da questo nodo, che è nel contempo culturale, etico, politico.
Potere della lingua - Lingua del potere: "De vulgari eloquentia", "Monarchia" e la Napoli angioina
bologna, c
2018
Abstract
Il più importante fra i tre manoscritti antichi del De vulgari eloquentia, oggi a Berlino, oltre ad offrire un testo più corretto dell’opera dantesca consente di approfondire in maniera decisiva la conoscenza intorno alla sua prima circolazione trecentesca e al contesto culturale entro cui essa si compì. Tra Firenze e Napoli, con tutta probabilità, esso fu conosciuto già intorno al 1340-50 non quale “trattatello linguistico” (secondo la riduzione epistemologica a cui la stringeranno un secolo e mezzo più tardi Trissino e il Bembo), ma come riflessione sul rapporto che lega il potere della lingua alla lingua del potere, ed anche la retorica all’arte di “reggere” la cosa pubblica. Appunto Rectorica Dantis viene definita, in una postilla di una mano coeva a quella del copista principale, l’intera sequenza Monarchia-De vulgari eloquentia che occupa la seconda parte del codice berloinese (fol. 89r-94v+95r-98v), in un sistema intenzionalmente costruito da un editor che parrebbe molto vicino a Dionigi di Borgo San Sepolcro, intellettuale legato a Roberto d’Angiò, visto che la parte più consistente del libro (fol. 1-88v), pensato e organizzato in maniera organica con un insieme coerente, trasmette il commento di Dionigi a Valerio Massimo, completato a Napoli entro il 1342, anno della sua morte. Dionigi propiziò l’incoronazione poetica di Petrarca sul Campidoglio, e prima ancora il suo importantissimo viaggio a Napoli; fu anche vicino a Boccaccio, e svolse un ruolo decisivo nella formazione del primo “umanesimo” italiano, nella corte angioina, già molto attenta, fin dal Memoriale del 1313, alla questione del volgare. In questo quadro l’accostamento delle due opere dantesche al commento di Dionigi assume un valore ideologico altissimo, e mostra come la cultura angioina abbia colto il legame intrinseco che nella riflessione politica di Dante assumono l’universalità giurisdizionale del potere imperiale e la forza che avrebbe l’Impero riunificato nel coordinare una lingua illustre, cardinale, aulica e curiale. La posizione espressa da Mon., I 5, 3-10 («unum oportet esse regulans sive regens, et hoc “Monarcha” sive “Imperator” dici debet. Et sic patet quod ad bene esse mundi necesse est Monarchiam esse sive Imperium») si comprende pienamente confrontandola con i capitoli 17 e 18 del I libro del DVE («sicut membra illius uno Principe uniuntur, sic membra huius gratioso lumine rationis unita sunt. Quare falsum esset dicere curia carere Ytalos, quanquam Principe careamus; quoniam curiam habemus, licet corporaliter sit dispersa»). Le due opere furono comprese, nella Napoli di Roberto d’Angiò e di Dionigi da Borgo San Sepolcro commentatore di Valerio Massimo e di altri classici antichi, in quel senso pienamente umanistico con cui Dante aveva connesso «Seneca et Numa Pompilius», il potere del pensiero e della scrittura e la stabile fondazione della communitas umana, pilastro della convivenza civile a cui il linguaggio per sua natura tende, e che il sovrano “illuminato” fonda e garantisce. Al Dante del De vulgari eloquentia come a quello della Monarchia interessa la saldatura del potere della lingua in quanto radicamento comunitario della civiltà umana con la lingua che il potere politico elabora per costituire «domum et civitatem», famiglia e società. Per lui la nuova classe dirigente di una nazione italiana dovrà muovere da questo nodo, che è nel contempo culturale, etico, politico.File | Dimensione | Formato | |
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